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Immagine del redattoreSimone Franceschini

Qual è il fine ultimo della pratica?

Realizzata la centralità del lavoro interiore nella pratica marziale, il passo determinante e più difficile è rappresentato senza dubbio dall’attuazione pratica.

 

Ideare una metodologia in grado di aiutare il praticante ad elevarsi, tanto interiormente quanto esteriormente, nel combattimento richiede, oltre ad una conoscenza dettagliata dell’arte marziale, anche una conoscenza dell’interiorità umana e qui il terreno non è certo senza pericoli. Cadere nel fanatismo e nel settarismo è una possibilità assolutamente da non sottovalutare quando ci si avvicina a questi temi.

 

La chiarezza e la sincerità devono essere dunque gli elementi primari per evitare astrattismi di ogni sorta.

 

Fortunatamente nel nostro specifico caso siamo agevolati dalla pratica stessa: nella lotta a contatto pieno contro un avversario non collaborativo, il nostro intero mondo interiore si riflette quasi senza filtri nei nostri movimenti, rendendone lo studio semplificato.

 

Il tatami può infatti essere considerato un acceleratore. Per essere più chiari prendiamo come esempio la pratica meditativa, senza interessarci di che genere. Diciamo solo che il nostro progresso interiore, in questo caso, andrà ricercato all’interno della nostra vita quotidiana. Esso non si manifestera immediatamente perché quasi mai abbiamo immediata contezza del nostro mondo interiore, il filtro sociale tende ad occultare la percezione di sé e indirettamente anche la percezione dei progressi interiori raggiunti attraverso la pratica meditativa che abbiamo scelto.

 

È un percorso lungo e molte volte serve un accadimento straordinario per mettere in luce queste connessioni, per, in qualche modo, renderci più attenti.

 

Il tatami invece può essere visto come un luogo in cui tutto ciò si condensa, in cui lo straordinario diventa ordinario.

 

Prima di iniziare uno studio delle focoltà da cui attingiamo quando lottiamo ed il modo in cui tenteremo di perfezionarle attraverso il combattimento, dobbiamo mettere bene in luce il nostro obiettivo. Dobbiamo capire qual è la meta da raggiungere se ci si vuole considerare artisti marziali, perché senza questa comprensione tutta la pratica perde di valore. Non possiamo permetterci di affrontare gli sforzi che la lotta esige se non abbiamo chiaro sin da subito il fine.

 

Sopra ogni cosa il fine ultimo della nostra pratica sarà il raggiungimento della bellezza. L’estetica del movimento deve essere la meta e il metro di paragone di ogni artista marziale.

È questa la meta perché solo la bellezza dei propri movimenti può essere considerata l’anello di congiunzione fra l’attività fisica nella lotta e il corrispettivo lavoro interiore che noi abbiamo posto come fondamentale. Bisogna essere chiari però che sarà sempre indispensabile avere un avversario totalmente ostile, altrimenti l’intera attività sarà vana sotto tutti i punti di vista.

Senza un avversario libero di poter operare come meglio crede non può esserci un ostacolo valido e senza ostacolo non può esserci superamento alcuno. Vedremo proprio come questo superamento del limite sia fondamentale ai nostri fini.



Non è questo il luogo in cui approfondire il tema dell’estetica, qui ci limiteremo a delle osservazioni generali che ci serviranno esclusivamente per individuare con precisone cosa intendiamo qui con limite.

 

Possiamo certo dire che comunemente nell’uomo il sentimento della bellezza si accende ogni qualvolta percepisce un attività o un’opera che sembri superare le leggi naturali, che sembri svincolarsi per magia dalla normalità alla quale è abituato per condurlo con lo sguardo in un mondo altro. Pensiamo ad esempio alla leggerezza di una ballerina di primo livello: il suoi librarsi nell’aria mettendo in discussione tutte le leggi fisiche non smetterà mai di destare un senso di meraviglia. La “grazia innaturale di Nijinsky” dovrebbe ricordarci qualcosa.

 

Alla luce di quanto detto torniamo alla lotta. In natura quando avviene un combattimento fra animali, è il più feroce ad avere la meglio. Vince l’esemplare nel quale l’animalità si manifesta con maggiore forza. Immaginiamo due gorilla fronteggiarsi per esempio: il loro scontro ci si mostrerà come uno spettacolo brutale in cui i due contendenti tenteranno di prevalere l’uno sull’altro direttamente, facendo leva esclusivamente sulle proprie caratteristiche di specie, su nient’altro che quelle.

Nulla in più della loro animalità, e quindi dei vincoli naturali che li costringono, entreranno in gioco e questo comporta, agli occhi di un ipotetico osservatore, il sorgere, al massimo, di un senso di sbigottimento per le doti che un animale può mostrare, ma niente di più. La bellezza non ci si disvela.

 

Solo l’attività umana può disvelarla perché solo l’essere umano è in grado di auto disciplinarsi per superare la propria parte animale.

 

Ed è questo superamento la prima meta, quello che all’inizio abbiamo definito limite. Questo superamento in Oriente viene chiamato comunemente cedevolezza.


 

Lo sviluppo della cedevolezza sarà dunque un punto imprescindibile: essa è la manifestazione del superamento dell’animalità da parte del lottatore e tappa obbligatoria per migliorare l’estetica dei suoi movimenti.

 

L’estetica nella lotta è però qualcosa di ancora superiore: essa si manifesta come il controllo assoluto del proprio avversario nello scontro, attraverso la capacità di accogliere e controllare l’impeto dell’altro per tutto il tempo che si vuole, in ogni punto dello spazio.

 

La grazia nel superamento di un ostacolo soverchiante: questo è il nostro obiettivo e tutta la pratica dovrà essere orientata al suo conseguimento.

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